DELLA TORRE, Francesco Ulderico
Dizionario Biografico degli
Italiani - Volume 37 (1989)
di Gino Benzoni
DELLA TORRE, Francesco Ulderico. - Figlio di Gianfilippo di
Raimondo e di Eleonora di Federico Gonzaga del ramo di Castiglione, nacque il 5
ott. 1629, a Sagrado (Gorizia),
venendo battezzato, il 15, nella chiesa parrocchiale dei Ss. Pietro e Paolo di
Gradisca. Suo prestigioso padrino, rappresentato dallo zio paterno Raimondo e
dalla contessa Elisabetta Strassoldo, il
principe Ulderico di Eggenberg omaggiato, appunto, col secondo nome di
battesimo del Della Torre. (Per notizie sul padre, signore di Duino, vedi s.v. Filippo Giacomo, p. 533).
Incline agli studi, il D. sembrò adatto alla carriera ecclesiastica e, data la simpatia del padre per la Compagnia di Gesù, venne a questa destinato iniziando a Roma, nel 1645, il noviziato. Ma la salute cagionevole e una malattia non debellata impedirono all'adolescente la necessaria concentrazione richiesta dall'eccezionale impegno di questo periodo; né aveva sufficiente energia per superare la prova - fisicamente debilitante - dei faticosi esercizi prescritti. Donde un prolungato soggiorno napoletano al fine di ristabilirsi, la rinuncia alla vita religiosa, il volgersi alle prospettive di carriera politica, il ritorno alle dimore avite di Sagrado e Duino ove poté immediatamente saggiare la dimensione del comando. Per lui vantaggiosa, inoltre, la costituzione del minuscolo staterello di Gradisca, concessa - coll'aggiunta d'una quindicina di villaggi scorporati dal Goriziano -, il 26 febbr. 1647, dall'imperatore Ferdinando III, quale contea principesca ereditaria, a Giovanni Antonio di Eggenberg. Il 15 marzo 1655, infatti, il D. venne nominato maresciallo ereditario e capitano della cittadina, nella quale, dimorando gli Eggenberg altrove e limitando la loro presenza a fugaci apparizioni, finì coll'esercitare il governo effettivo con soddisfazione di Vienna che, tramite il D., cui Leopoldo conferì il "grado di cameriere della chiave d'oro", poteva contare su di un elemento fidato e sensibile alle direttive imperiali.
Dignitosamente insediatosi in un elegante e vasto palazzo (sarà, alla
fine del Settecento, per breve tempo sede episcopale e quindi passerà alla
famiglia Finetti), di cui dispose l'integrale ricostruzione, il D. dispiegò -,
da questa sua residenza, ora municipio di Gradisca, in stile palladiano, dalla
facciata semplice e, insieme, maestosa, con una scala a giorno sul verde
cortile - avveduto e sollecito un'incisiva volontà d'intervento complessivo e
di rianimante attivazione. Rafforzò, ampliò, arricchì d'un ulteriore bastione
le muraglie della fortezza; aumentò
gli effettivi della guarnigione da 400 a 1.000 fanti affiancati da una
compagnia di 120 cavalleggeri e, ripristinando la regolarità dei pagamenti.
Poté esigere a sua volta, il rispetto, antecedentemente alquanto scaduto, della
disciplina; costante, altresi, la sua cura per un'adeguata provvista di scorte,
per la dotazione e la manutenzione delle armi. Aprì un pubblico giardino riccamente decorato di statue; promosse, per
fronteggiare le inondazioni dell'Isonzo e del torrente Torre, lavori d'arginatura; elargì munifico ai
poveri, protesse vedove ed orfani, sovvenne chiese e conventi; istituì benefici
per l'ospedale; incoraggiò l'erezione della loggia dei mercanti, ora sede del lapidario gradiscano. Perché il
prestito non fosse monopolizzato dalla locale comunità ebraica in prevalenza
aschenazita presente a Gradisca con una scuola privata e una sinagoga (M. Del
Bianco Cotrozzi, Gli ebrei di Gradisca..., in Gli ebrei a Gorizia e a
Trieste...,a cura di P. C. Ioly
Zorattini, Udine 1984, pp. 155-163), contro "iudaicae usurae
perniciem", dunque, oltre che mirando al "pauperum subsidium",
per sua volontà, il 2 ag. 1670, venne deliberata la creazione del Monte di pietà: aperto nel 1674, avrà
sede in un edificio più che decoroso di cui s'avviò la costruzione nel 1688 e
che, restaurato, nel 1877 diverrà palazzo municipale ed è, attualmente, sede
della pretura.
Il D. promosse altresì, con
l'istituzione di scuole,
l'istruzione e diede alla nobiltà impoverita possibilità d'educare
gratuitamente i propri rampolli fondando un collegio chiamato seminario, a
vantaggio del quale, a partire dal 1663, vennero devoluti 50 fiorini all'anno
dei 150 del suo stipendio di capitano. Riordinò l'amministrazione civile e
finanziaria, concorrendo di tasca propria all'estinzione dei debiti e al
rinsanguamento delle vuote casse erariali. Fece costruire strade e ponti, fece erigere il pubblico granaio; si preoccupò del calmieramento dei prezzi;
incentivò le attività manifatturiere, specie introducendo la lavorazione della seta e allettando, a
tal fine, tessitori e tintori veneti. Donde, sotto la sua reggenza, il decollo
della tintoria e del damasco gradiscani.
In fatto, poi, di rapporti con le
autorità veneziane confinanti, il D.
perseguì una politica di buon vicinato, come riconoscono i provveditori
generali a Palma, pei quali il D. è "cavaliere intelligente e capace delle
formalità", "un genio evidente e della quiete comune e della buona
corrispondenza", "il signore ... che proffessa una costante divotione
verso la Serenissima ... et un genio partiale di ben vicinare e di tener
rimosse tutte le occasioni di novità e di sconcerti", quello che
garantisce "continuata la buona corrispondenza", mentre per il
luogotenente del Friuli Benedetto Giustinian anche il D., che "gode molti
beni rivolti fra li confini medesimi", è interessato si addivenga, una
buona volta, ad una definitiva composizione del contenzioso confinario.
Imperatore Leopoldo d'Asburgo |
Tale soprattutto il giudizio espresso dal rappresentante
veneto a Vienna Alvise Molin nella
sua relazione del 27 sett. 1661. Il D. era responsabile d'accogliere, a
Sant'Antonio di Duino, in appositi magazzini, sale di contrabbando di
provenienza istriana che poi provvedeva a vendere sottocosto in Friuli e in
terra austriaca, ricavando - si sdegnava il Molin - da questo "putrido
negotio" più di 6.000 ducati all'anno e infliggendo, nel contempo, a
Venezia un "danno ... senza comparatione maggiore". Intollerabile per
il Molin che impunemente le "brazzere" - approfittando del vento
gagliardo, che ostacolava la barca armata veneziana preposta alla sorveglianza
- portassero dall'Istria a Duino con facilità il sale. Il D., assicurava il
Molin, "riuscirà sempre infesto" a Venezia "nel confine perché
di sua natura è di spiriti torbidi", gonfio
di presunzione, divorato dall'ambizione. "Ha deboli fortune",
osservava il Molin quasi a circoscriverlo in angusti spazi e a ridimensionare
la sua figura che solo nello staterello gradiscano poteva atteggiarsi
imponente, ma, ciò malgrado, nutriva "grandi et alti pensieri".
Andava ad ogni modo ostacolato perché "di pessima dispositione verso"
la Serenissima. Purtroppo poteva avere "bel
gioco", dal momento che "gira
come vuole" la principessa Anna Maria vedova di Giovanni Antonio di
Eggenberg, la quale, "bonissima signora", s'era però messa totalmente nelle sue mani, essendosi
egli, con insinuanti ed abili "accortezze", totalmente impadronito
del suo "animo" sì da farne il paravento delle sue azioni, tra le
quali s'annoverava "un'estorsione putrida d'alcuni beni rapiti alle
monache" d'Aquileia.
Principessa Anna Maria di Eggenberg |
Vano protestare perché il D. a
Vienna aveva "appoggi ben grandi" e si faceva sempre "scudo con
la principessa", alla quale faceva credere che le sue "usurpationi"
non fossero altro che zelo di ben servirla. Non basta: "non contento
d'operar per se stesso", fomentava anche le rivendicazioni antiveneziane
di Trieste. Da paventare che un uomo così "pregiudiciale a' confini"
veneti, così di "danno alle pubbliche rendite", non fosse messo in
condizione di procurare guai peggiori. Non lo "vogli Dio", s'augurava
il Molin. Pel momento il D. stava brigando a Vienna per succedere, nella
rappresentanza cesarea a Venezia, a Humbert Czernin. Stava alla "prudenza"
senatoria valutare "il pregioditio che causar potrebbe in simil
posto". Per parte sua il Molin
s'era adoperato a "screditarlo" ovunque e comunque avesse potuto.
E contribuiva, così, anch'egli a frustrare, per ora, le aspirazioni del D.; fu
infatti, Domenico Federici il nuovo ambasciatore a Venezia.
Spiacevole la mancata nomina per
il D., ma non scoraggiante, ché anzi ne traeva incentivo per impegnarsi
sistematicamente nell'amministrazione gradiscana, per rendere più inciso il
proprio profilo e per poggiarlo sul riconoscimento, sgombro da ipoteche, della
signoria duinate spettante alla sua famiglia. Un successo, dopo tante
insistenze sue e dei fratelli Raimondo Bonifacio e Filippo Giacomo, il
definitivo diploma di vendita di Duino del 28 luglio 1669. Ed era segno d'autorevolezza
il fatto che, il 17 marzo 1670, assieme al vescovo Francesco Massimiliano
Vaccano, inducesse, a Trieste, alla riconciliazione il Comune e il capitano
barone Gianvincenzo Coronini. Ulteriore consolidamento del suo prestigio
l'elevazione, del 1672, alla dignità di consigliere
intimo dell'imperatore. Apprezzata altresì la permanenza - quanto meno
dalla fine di luglio del 1674 sino al novembre del 1675, dapprima col titolo
d'inviato straordinario imperiale, quindi in veste di gran maggiordomo - del D.
a Varsavia presso la regina di Polonia Eleonora (la sorella,
per parte di padre, di Leopoldo I nonché vedova del re Michele
Korybut-Wiśniowiecki) che sorresse col suo consiglio in difficili circostanze.
La aiutò, infatti, a fronteggiare
la fortissima ostilità nobiliare, s'ingegnò per tamponare le falle più vistose
delle sue personali finanze devastate dai debiti, s'adoperò perché, nel
contempo, non scadesse del tutto il tono della vita di corte. Dopo di che, nel
viaggio di ritorno, peraltro disapprovato da Leopoldo, di Eleonora, il D. fu
sua scorta preziosa; ed ebbe, quindi, un ruolo di mentore nelle sue seconde
nozze - per lei ben più appaganti delle prime - del 1678 con Carlo di Lorena.
E, riconoscente, Eleonora, da Graz ove s'era insediata, chiese direttamente
all'imperatore che venisse assegnata al D. la presidenza della Camera a Vienna.
Senza fortuna però, ché nocque al D. la scarsa
dimestichezza col tedesco, per cui gli fu preferito il conte Breiner.
Egualmente soddisfacente, comunque, per le sue ambizioni, la nomina, del 10
genn. 1676, a rappresentante imperiale a
Venezia, ove - distolto da altre incombenze tra le quali figurano rapide
missioni a Mantova e Milano e trattenuto da una tormentosa podagra che
l'inchiodò spesso a letto - giunse solo nel maggio del 1679.
Affittato dai Foscarini un palazzo sul Canal Grande (dev'essere
quello di S. Stae di cui in G. Tassini, Palazzi... di Venezia..., Venezia 1879, pp. 230 ss.) e ivi predisposta la
sua lussuosa residenza, rinviò l'ingresso pubblico al 19 febbr. 1680, curando
avvenisse nella forma coreograficamente più suggestiva. In effetti questo segnò
uno degli episodi più memorabili tra i fasti della scenografia lagunare.
"Riuscì in tal guisa - si scriveva a Roma, il 24 febbraio, dalla nunziatura
veneziana - che memoria d'huomo non si ricorda havesse veduta simile in
bellezza e vaghezza". Inaudita la sontuosità
del corteo di gondole, "due
delle quali tutt'oro sembravano geme natanti sull'onde". L'indomani, il
20, il D. presentò le credenziali al Collegio. Per "due giorni - quello
dell'ingresso e quello della prima udienza - e notti", riferisce
sbalordito l'osservatore pontificio, restarono, nel palazzo del D.,
"aperte due bottigliarie guarnite di molta argentaria, nel qual tempo si
dispensarono squisitissimi liquori d'ogni sorte" ai visitatori di
riguardo, mentre "la cantina", pure "aperta", provvedeva a
distribuire "vini al popolo, quali,
per esser vini di Friuli, facevano andar le voci al cielo d'allegria".
S'avvia così l'ultima e più significativa
fase dell'esistenza del D., tutto proteso a conferire il massimo del prestigio
alla sua presenza lagunare. Non per questo, tuttavia, dimenticava i "suoi
interessi" nel Friuli orientale, né si scordava dell'amata Gradisca. In questa si recava sovente - e a Gradisca
fece pervenire, eludendo l'occhiuta sorveglianza veneta, quell'ingegnoso telaio per fabbricare le calze il cui
segreto di costruzione era stato trafugato, ancora nel 1614, dall'Inghilterra -
pare da due mercanti inglesi antecedentemente messisi in contatto con
Marcantonio Correr, ambasciatore a Londra - e quindi sempre gelosamente
custodito; ma forse trattasi di quel procedimento di lavorazione pel quale,
ancora il 22 maggio 1612, l'inglese Santheot Vaymont aveva ottenuto dal Pregadi
un privilegio di trent'anni relativo, appunto, all'innovazione da lui proposta
di "lavorare calze e gucchia in modo tutto differente et più facile"
di quello in uso (Archivio di Stato di Venezia, Senato. Terra, reg. 82, c. 54v). Fatto sta che la lavorazione di
calze di seta all'inglese su telaio sembra imporsi a Venezia stando ai
Privilegi senatori del 18 giugno 1661, 15 luglio 1671, 19 sett. 1681 (ibid.,
regg. 162, 183, 203, rispettivamente alle cc. 285, 25, 37). Viva, altresì, la preoccupazione del D. per la peste, manifestatasi nel 1682 a
Gorizia, ché non si limitò a biasimare la fuga precipitosa dei nobili della
città, ma, sensibile alle angosciate richieste del luogotenente Lodovico
Vincenzo Coronini e dei provvisori alla Sanità baroni d'Orzone, Garzarolli e
Rassauer, inviò "droglie e medicamenti", medici e
"pizzicamorti" da Venezia esigendo - di contro all'ostilità della
popolazione che preferiva illudersi e non sentir parlare d'epidemia - fosse
dato loro modo d'operare.
Non esitò, infatti, a propugnare
un drastico intervento senza "compassione alla robba" e
"case" essendo, a suo avviso, urgente "abrugiare tutto "ed evacuare la città spedendone "la
gente sulli monti con buona guardia". E volle che il "modo di
operare" del personale qualificato da lui inviato, sia pure con
"romore" degli abitanti intestarditi a non riconoscere la gravità
della situazione, fosse ben assimilato per valersene anche in futuro
"dubitando io, purtroppo, che, anidatosi questo male nella Croatia, ... ci
farà tregua, ma non pace ... e convenirà star lungamente guardati". Il D.
sembra quasi voler sovrintendere alla lotta antiepidemica da Venezia, ove
consultava costantemente il "parere" autorevolissimo del
"protomedico" del "magistrato alla sanità", da cui apprese
le "molte pratiche" attuabili in "tali casi", anzitutto
"l'espurgo così necessario delle robbe". Esemplare per il D. la
prassi veneziana, da imitare il ferreo controllo su uomini e cose da questa
contemplato. I pericoli epidemici, pensava, allignavano soprattutto in Croazia,
in "quelle parti", cioè, "incapaci di ordine e di regole".
Lo sconcertava e l'indignava "impertinente ostinatione" della
"cittadinanza" goriziana nel "ricusar li maestri di sanità e
pizzigamorti" giunti da Venezia. "Io - commentava - n'haverei mai
creduto che gente capace di ragionare potesse arrivare" al rifiuto del
"bene" propostole dalla sua "paterna carità". Occorreva,
allora, costringerla; ciò nella convinzione gli "avvertimenti da me
sugeriti" potessero, con concorso della "misericordia" divina,
"estinguere il male". Fatto sta che i due maestri di sanità e i
quattro becchini dal D. inviati da Venezia vennero respinti.
Più di Gorizia grata al D. Trieste, da lui raccomandata, nel 1693, all'imperatore quale sede
da privilegiare nella promozione dei traffici mercantili; ed una lapide
collocata nello stesso anno nel nuovo palazzo pubblico - per l'erezione del
quale il D. versò 1.000 fiorini - gli attestò pubblicamente la gratitudine
dell'intera città. Naturale, per il D., adoperare, a mo' di paterno protettore,
la sua influenza - che ebbe un tangibile riscontro nella pensione vitalizia di
4.000 fiorini annui e nel Toson d'oro "ma questo è pocho alli suoi
meriti" gli scrisse, lusingandolo, il 13 maggio 1690, Marco d'Aviano) a
vantaggio delle terre austriache.
Fastidioso, invece, talvolta, "il peso della sua ambasciata, la quale conveniva haver riflesso in
più parti d'Italia", come confessò, nel febbraio del 1686, al patrizio
veneto Domenico Contarini reduce dalla rappresentanza viennese. E certo non gli
fu gradito il doversi sobbarcare "continue prattiche presso il duca"
di Mantova per far uscire dal carcere un Canossa (un Claudio e un Luigi Canossa
risultano rappresentanti mantovani a Vienna, rispettivamente nel 1669-70 e
1670-72), un funzionario accusato di contatti personali con altre corti,
essendone "continuamente cruciato - così si sfogava col Contarini - dall'insistenze
dell'imperatrice Eleonora". Forse anche per siffatte noie il ruolo
d'ambasciatore, pur rilevantissimo, poté, a volte, non appagarlo. E indubbiamente,
in un primo tempo, il D. dà l'impressione di preferire l'"ufficio
del maggiordorno" alla corte viennese, pel quale il d'Aviano lo
raccomandava all'imperatore, avendone, però, un cortese diniego: "il
conte... - così Leopoldo al frate in una lett. del 3 apr. 1683 - è già buon
cavaliere, ma in queste nostre cose di qua temo né so s'egli sia tanto
informato. Io raccomanderò il tutto a Dio e quello" che "troverò per
maggior sua gloria, risolverò". A Venezia, dunque, non a Vienna veniva
ritenuto proficuo l'operato del D. che il d'Aviano valorizzava di sovente
esaltandone "l'altissimo merito" presso l'imperatore. E il D. stesso
sempre più s'affezionò alla sua carica lagunare, tanto che, in un colloquio del
luglio del 1692 col patrizio Girolamo Venier, già ambasciatore a Vienna,
lasciava trasparire "il suo dolore che il conte" Francesco Antonio
Berka aspirasse a "questa ambascieria" che riteneva sua inalienabile
prerogativa, disposto a rinunciarvi solo o per "sua volontà" o perché
costrettovi dalla "falce di morte".
Frequenti, durante la
rappresentanza del D., i fermi e i sequestri di "navilii",
"vasselli", "petacchi", "marciliane",
"fregate", "barche", "fregadoncini",
"galioricini", "bastimenti", "legni", per lo più
fiumani e per lo più "carichi di sale". E il D., volta per volta,
sollecitava la "espeditione", insisteva pel "rilascio",
reclamava la "liberatione". È "inevitabile", osservava, si
verifichi "il negotio de' trasporti de' sali dal Regno di Napoli per Fiume
et altri luoghi d'imperio", poiché, considerava, "il sale non è come
il zucchero, questo superfluo nelle vivande e quello per condirle più che
necessario". Ma per quanto contestasse la liceità della giurisdizione
adriatica, il D. evitava d'inasprire i contrasti in proposito. Malgrado questi,
a suo avviso, s'imponeva la convergenza
tra l'Impero e la Serenissima, entrambi baluardi della civiltà cristiana,
"validissimi argini contro l'onde impetuose dell'ottomana potenza".
Si trattava di "potentati di nazione e governo differenti", ma,
anche, "uniformi", poiché tutti e due miravano al "pubblico
bene".
Deludente, in un primo tempo,
l'atteggiamento della Repubblica di fronte all'aggressione ottomana: invano il
D. prospettava la drammaticità dell'inarrestata avanzata turca, invano
sollecitava reiteratamente aiuti per la vacillante "armata di sua
Maestà". Stremata dalla guerra di Candia, Venezia si rattrappisce elusiva,
può solo - si risponde più volte al D. - mobilitare le proprie residue risorse
umane e finanziarie nel presidio vigile del suo "dilatato confine".
Ma anche per lei l'assedio di Vienna costituisce un incubo; ed esulta
all'annuncio della liberazione. "L'allegrezza - scriveva il D. il 21 sett.
1683 - le feste e le dimostrationi che si fanno dal popolo" veneziano
"tutto per simile successo sono inesplicabili e per nessuna vittoria di
questa repubblica in tempo di propria guerra è stato mai fatto tanto". Il
D. aveva buon gioco nell'associarla all'entusiasmante prospettiva d'una rimonta
contro la mezzaluna umiliata quando, il 15 genn. 1684, si recò in Collegio,
latore dell'invito ufficiale ad aderire alla lega. Il "servitio"
dell'imperatore finalmente poteva essere lumeggiato come "bene" dalla
Repubblica. Il vantaggio poteva finalmente indossare panni eroici. Era un
momento storico che esigeva accenti elevati: "vengo" - scandiva
solenne il D. - con "propositione la più vantaggiosa che ... sia stata
recata da secoli. Porto esibitione di perpetua sicurezza di gloria immortale,
di inestimabili acquisti ... Vengo ad offerire ciò che la convenienza l'utile e
la necessità persuade". Leopoldo, "vittorioso..., munito di potenti
alleanze, poderosamente armato, ... offerisse" alla Serenissima "la
liga contro un inimico battuto". Nel martellante perorare della sua
calibrata concitazione sembrano fugate interminabili sequele di litigiose
beghe, sono rimossi i sospetti e le diffidenze, vien quasi sgombrata la memoria
dell'accanimento fastidioso e talvolta aspro d'un plurisecolare contrasto.
Entrambi - l'Impero e la Repubblica - paiono convocati dal destino ad imboccare
il luminoso cammino d'una trionfale epopea. Calunniosa, si premurava di
precisare il D., la voce "artifficiosamente inventata" Leopoldo stia
"per far ... la pace" colla Porta, tant'è che "cerca
collegati" e "a me ... impone di non perder tempo per venire alle
strette" e concludere al più presto. "Sua Maestà - s'infervorava il
D. - non vuole, non deve e, ardisco dire, non può far pace". Del 19
gennaio la delibra senatoria di comunicare l'adesione veneziana a "così
santa lega" al D., cui poi si precisarono i termini operativi d'un impegno
bellico che voleva essere solo marittimo e non direttamente coinvolto nelle
vicende del fronte terrestre, per il quale, perciò, egli doveva limitarsi a
chiedere, volta per volta, "permissione di passo" a "reclute",
"genti", "bagagli".
L'assedio di Vienna del 1683 da parte dei Turchi |
Erano comunque l'avanzata delle
armi imperiali in terra è le imprese, non sempre fortunate, della flotta veneta
il costante riferimento del D. che - non a caso dedicatario del Briareo titubante ... (Venetia 1686), un opuscolo
che dava per imminente lo sfaldamento del colosso ottomano - valorizzava
puntualmente soprattutto l'"acquisto" di Gran Neuhäusel Buda
Seghedino Mohacz Belgrado. Si alternavano così, da parte del D., i
rallegramenti complimentosi pei "buoni successi dell'armi venete" coll'enfatico
rilievo ad ogni "battaglia guadagnata" dall'Impero, colla
celebrazione delle "conquiste fatte da Cesare". Proficua, dunque, la
"piantata intelligenza" veneto-imperiale, che il D. salvaguardava con
apprensione di contro alle insidie francesi, specie dell'ambasciatore presso la
Serenissima Denis de la Haye-Vantelet e dell'inviato straordinario François de
Rebenach giunto a Venezia il 16 febbr. 1692 coll'impudente compito
d'assicurarele intenzioni pacifiche del suo sovrano.
Sciagurato, per il D., Luigi XIV
che aggredisce Leopoldo mentre è proteso al sacrosanto dovere di "cacciar
dall'Europa tutti li turchi". Un'azione, questa del re cristianissimo,
"la più scandalosa" che si possa immaginare, che - così il D. in
Collegio il 6 nov. 1688 - le "historie" bolleranno con
"detestatione et abhominatione". Specie a partire dall'occupazione di
Casale del 30 sett. 1681, il D. non si stanca di denunciare i "vasti
disegni" della Francia sull'Italia, d'accusare la tracotanza politicomilitare
del re cristianissimo così lesiva d'ogni possibilità d'autentica
"quiete". Vibra nel suo ammonente argomentare un accento di furente
gallofobia. La Francia non è soltanto la potenza nemica, è una sorta di
incarnazione del potere più perverso. La valutazione politica si esaspera nel
D. sino a trasformarsi in durissima condanna morale, in sdegnato giudizio
etico: sempre "male" le "intraprese" dei Francesi, adusi in
tutte "le arti" del "male fare"; "infame
scrittura" ogni loro testo propagandistico. Così il D. s'esprimeva nelle
pubbliche udienze. Ed era, nei loro confronti, ancora più veemente nelle
conversazioni private: "li chiamò - riferisce, il 16 febbr. 1689, Girolamo
Venier destinato ambasciatore a Vienna - cani arrabiati che mordono amici et
nemici et accusò di menzogna tutti i manifesti della Francia". Un dovere,
allora, per il D. opporsi alla Francia, una grave colpa favorirla. E, poiché
supponeva francofilo il cardinale Gregorio Barbarigo, avvertiva, il 17 febbr.
1691, Vienna che questi era talmente fanatico nella sua parzialità da essere,
in cuor suo, più francese dell'odiato re Sole. E, il 10 marzo, a conferma di
ciò, si premurava d'informare d'aver appreso d'una visita al vescovo di Padova
dell'ambasciatore francese a Roma, il duca de Chaulnes Charles-Albert d'Ailly,
durante la quale questi l'avrebbe ringraziato "delli sentimenti"
manifestati "a favore della Francia", certo, altresì, che avrebbe
serbato "li medesimi sentimenti, quando sarà fatto papa, come
bramiva" Luigi XIV. Una decisa messa in guardia non priva di riflessi sul
conclave allora in corso e, forse, addirittura influente sull'esplicito non
gradimento imperiale che fece rientrare la candidatura del veneziano.
Marco d'Aviano |
Sintomatica è la lettera del 1º
aprile di Leopoldo a Marco d'Aviano che pur ostile alla Francia - tant'è che,
il 21 apr. 1689, aveva scritto al D. d'augurarsi la penetrazione dell'armata
cesarea "nel cuore della Francia" per infliggerle quanto Luigi XIV
"ha fatto ... nella Germania" - caldeggiava, invece, l'elevazione al
soglio del Barbarigo, di cui era amicissimo (P. Melchior a Pobladura, De amicitia s. G. Barbadici cum.. Marco ab Aviano..., in Collectanea
franciscana, XXXI [1961], pp. 61-79).
"Tutti lo tengono - scriveva, dunque, l'imperatore al frate - per un altro
s. Carlo. Lo lodo anch'io, ma credo che per il governo della chiesa non basti
la pura santità, ma bisogna... profonda prudenza et ... sicuro modo di
governare. V'è chi lo tiene per assai partiale della Francia, ma non lo credo
perché credo che un vero santo non possa mai esser partiale di Francia".
Evidentemente Leopoldo era rimasto turbato dalle esagerazioni del D.: anche se
non ne condivideva il giudizio, concordava colla sostanza dei suoi
avvertimenti, vale a dire anch'egli - sia pure con diversa motivazione
(Barbarigo è santo, ma perciò, è sottinteso, ingenuo ed imprudente) - riteneva
inopportuna l'elezione.
Partecipe, il D., durante
l'ambasciata dell'esigenza di reperire denaro per le esauste casse imperiali:
per suo tramite si contrasse a Genova un grosso prestito e, in conformità a
quattro contratti di mutuo stipulati fra il 1686 e il 1689, le relative somme
vennero accreditate al D. nel Banco Giro di Venezia; grazie a lui Vittorio
Amedeo sborsò una ragguardevole somma per l'investitura d'alcuni feudi. Ciò non
toglie vedesse con preoccupazione la svendita di troppi feudi - e rattenendo lo
sdegno ascoltò le profferte d'acquistare, con un'enorme cifra, le signorie di
Trieste e Buccari e la contea di Gorizia avanzate da quel Francesco Maria
Spinola, duca di San Pietro, che parrà placare col ventilato ducato di
Sabbioneta quelle smanie principesche che, invece, Vienna deluse - e
s'adoperasse per individuare altre fonti di finanziamento. Donde il
suggerimento, nel 1690, d'un'ingegnosa imposta e, nel 1693, di una lotteria.
S'indebolì, nel frattempo, la non robusta costituzione del D., s'aggravarono,
accompagnate da crisi epilettiche, le sue abituali "indispositioni",
specie quelle apportate dalla podagra che invano cercò di curare coi
"fanghi" di Battaglia. Nel 1692 le "crudeli flussioni"
fecero di lui - costretto a "farsi portar in cadrega" - "un vivo
simulacro di miseria" e sofferenza. All'inizio del dicembre 1695
s'accanirono su di lui - stremato da "un anno di battaglia con varii
accidenti stimati epileptici" - sempre più violenti gli attacchi del male
sinché colto il 13 da "apnoplessia" che lo privò "di senso e di
moto", morì a Venezia il 14 dic.
1695.
Scomparve, così, "doppo
lunga penosissima infirmità", come precisò il giorno stesso in Collegio il
segretario, "un soggieto" - così il d'Aviano, il 21, al nipote Luigi
Antonio - di cui "il mondo christiano" serberà sempre
"memoria", sulle cui qualità "le lingue" avranno sempre di
che esercitarsi "loquaci". Clamorose quanto lo scenografico ingresso
le solenni esequie del 14 genn. 1696: il lutto coinvolse tutta la città e si
trasformò in accurato spettacolo. Sfilarono al completo le arti, le scuole, gli
ospedali, le autorità, i diplomatici, gli arsenalotti con torce, gli ordini
monacali, i preti secolari, mentre la bara veniva sorretta, sotto un
baldacchino d'oro, dai capitani delle navi e deposta nella basilica marciana.
Di qui la funebre processione si portò nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo,
ove attendeva un altro imponente catafalco, di fronte al quale il somasco
Felice Donà pronunciò una tornita orazione. Il nipote depose le
"benemeritas cineres" nel mausoleo eretto per il D. a Gradisca, nella
chiesa dei servi di Maria; collocate, invece, nella chiesa veneziana dei
serviti le "interiora". E in quest'ultima un'epigrafe tombale - i cui
resti - comunque, dopo l'incendio della chiesa finiranno nel lapidario
gradiscano ricordava come, essendo "alibi corpus" e "in coelis
anima", "hic" vi fosse, assieme agli intestini del D., la sua
"Venetiis affectio".
Il D. è stato a lungo
considerato, autore (e tale l'ha ritenuto corrivamente Pier Silverio Leicht)
d'uno scritto fortemente critico nei confronti dello Stato marciano, con spunti
ed accenti analoghi all'Histoire du gouvernement de Venise (Paris 1676) d'Amelot de la Houssaye e di questo, per
taluno, passivo "centone", che - dopo un'intensa circolazione
manoscritta, una versione tedesca a stampa del 1777, un compendio riassuntivo,
uscito a Venezia nel 1797, col titolo di Prospetto
storico-critico
del passato governo veneto- è stato
pubblicato, a Vicenza, nel 1856, come Relazione
sulla organizzazione politica della Repubblica di Venezia al cadere del secolo
decimosettimo...,a cura di G. Bacco, il quale,
saviamente, evitando di pronunciarsi sull'autore, s'èlimitato a dirlo "manoscritto
inedito di un contemporaneo". Anche se nei titoli dei manoscritti e nei
cataloghi il D. figura come estensore, anche se il frontespizio d'un esemplare
marciano indica il 1682 (e non mancano quelli che datano 1695) come data di
stesura, il contenuto - specie dove si diffonde sulla travagliata successione
dogale del 1675, e dove, definendo il Consiglio dei dieci "il più
autorevole della Repubblica", sembra ignorare il ridimensionamento
inflittogli nel giugno del 1677 - induce ad anticiparne la composizione entro
il marzo di quest'anno e autorizza, pertanto, a rimuoverne l'attribuzione al
D., giunto a Venezia nel 1679.
È probabile, invece che l'autore
sia veneziano, forse nobile, interessato - anche con qualche voluto errore di
dettaglio, con qualche inesattezza inserita ad arte - a stornare la propria
identificazione. Si tratterebbe, allora, d'un esame di coscienza interno, d'una
denuncia, dal di dentro, dello scadimento della dedizione alla cosa pubblica
d'una classe dirigente inquinata dalla recente affluenza di nobili candioti
sfuggiti al dominio turco, dannosamente divaricata tra l'indecoroso piatire dei
suoi membri più poveri e il protervo prevaricare dei pochi più influenti, quei
"grandi", cioè, solo intenti ad "arricchire e decorare i loro
parenti di dignità insigni della patria". Un giudizio impietosamente
severo, dunque, e, anche quando accenna all'ingordo accaparramento di
"biade" a danno dei sudditi, quando condanna i nobili proprietari
"sanguisughe dei contadini" - coraggiosamente aspro, il quale, per
poter circolare senza scandalo, deve - questa la battuta finale dell'ipotesi
svolta sino all'estreme conseguenze - apparire non già voce autocritica del
patriziato ma malevola valutazione esterna. Un cammuffamento nel quale la
paternità fittizia addossata al D. ha una sua credibilità: e rappresentante
dell'Impero che, praticamente e ideologicamente, è sempre stato estraneo a
Venezia, proviene da una famiglia dalle radicate tradizioni antiveneziane; suo
padre, Gianfilippo, è stato, a suo tempo, ostilissimo a Venezia.
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Fonti e Bibl.: Vienna,
(Oesterreichisches Staats-Archiv, Staatskanzlei, Venedig, fasc. 14-16; Arch. di Stato di Venezia, Collegio. Esposizioni
principi, passim in regg. 81 (da c. 66v del 1679-89 sino a c. 45r);
Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Arch. Morosini Grimani 413, c. 47r, lett. del D. all'ambasciatore yeneto a
Roma Antonio Grimani; Ibid., Cod. Cicogna 924/10, orazione del D. nella prima udienza; 1179, cc.
189v-190r, "officio" del D. per felicitarsi col doge Silvestro Valier
dell'elezione del 25 febbr. 1694; 2521, 5 lett. del D. all'ambasciatore veneto
a Vienna Domenico Contarini e 2 lett. al D. del vescovo di Lubiana Giuseppe
Rabatta; copie della Relazione o Esame criticante l'assetto veneziano attribuiti alla penna del D.,
ibid., 757, 1245, cc. 1r-121v, 1297/7, 1754, 2110, 2122, 2937/11, 3182/9,
3278/18; ulteriori copie della stessa: Ibid., Mss. Correr (ove, nel 1081, c'è l'"officio" del D. per
l'"acquisto" di Buda) 439, 531, 532, 960, 973, 1294, 1403 e Mss. Donà
dalle Rose 74 e Mss. Gradenigo
22, pp. 1-168 e Mss. Malvezzi 1392/2 e Mss. P. D. B, 174, 260, e C, 610, 2779 e Mss. Venier 2 (2), 5 (2) e Mss. Wcovich Lazzari, 31/1; Ibid., Miscell. Correr III/396, espozione del D. per il suo ingresso in
Collegio; Mestre, Arch. prov. dei cappuccini, P.M. d'Aviano. Lettere, I, n. 42 e IV, nn. 181-188, lett. autografe del D.
al d'Aviano o ad altri (questo, comunque, riguardanti); Ibid., copia delle
lett. quasi tutte del d'Aviano trascritte da M. Heyret (e ora in corso di
stampa a cura di P. Arturo Basso) dall'originale, ora disperso, già a Duino
indirizzate al D. le nn. 1-114, 116-206, 208-229 e con cenni sul D. le nn. 230,
231; Arch. segr. Vat., Nunziatura Venezia 120, cc. 381v, 395r; 121, cc. 182r, 183r-184v; 143, cc.
518v, 524r, 530; G. F. Palladio, Hist. ... del Friuli..., II,Udine 1660, p. 321; G. C. Capodagli, Udine illustrata..., Udine 1665, p. 581; dedicata
al D. l'Historia della ... contea di Goritia...,Udine 1684, di G. G. d'Ischia; M. Foscarini, Hist. della Rep. ven.,in Degl'istorici delle cose
venete..., X, Venezia 1722, p. 236;
dedicato al D. un sonetto in B. Botti, Dellerime..., Venezia 1689, p. 436; Docc. ... delle famiglie Strassoldo e della Torre..., Venezia 1863, pp. 60-70; Corrispondenza
... tra Leopoldo I... ed il p. M. D'Aviano...,a cura di O. Klopp, Graz 1888, pp. 20, 61, 102; Lett. del p. M. d'Aviano ... all'ecc.mo... F. D., Udine 1893; Venetianische
Depeschen vom Kaiserhofe..., s. 2, I, a cura di A. F.
Pribram, Wien 1901, p. 490; Libri commemoriali..., a cura di R. Predelli, VIII, Venezia 1914, p. 42;
Recueil des instructions... aux ambassadeurs... de France..., XXVI, a cura di P. Duparc, Paris 195 8, pp. 92
s., 99; Rel. di amb. ven., a cura di L. Firpo, IV, Torino 1968, pp. 109 s.; Rel. deirettori
ven. in Terraferma, a cura di A. Tagliaferri, Milano 1973-79, I, p. 288;
XIV, pp. 291, 359, 381, 387; M. d'Aviano, Corrispondenza, I,a cura di Arturo M. da Carmignano di Brenta, Abano
Terme 1986, pp. 281-95 passim; N.Beregan, Hist. delle guerre d'Europa…, Venetia 1689, I, p. 111; II, pp. 133 s.; C. G.
Ferrucci, Albero... de la Torre..., Venezia 1716, pp. 131-135; G. F. Gemelli Careri, Giro del mondo..., VIII,Venezia 1719, p. 141 (è
il D. "l'ambasciator cesareo"); V. Scussa, Storia ... di Trieste..., a cura di F. Camerani,
Trieste 1863, p. 146; F. Amadei-E. Marani-L. Mazzoldi, IV, Mantova 1957, p.
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figura come nome del D.); N. Stock, P. M. von Aviano..., Brixen 1899, p. 213; L. Schiviz von
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M. Cossàr, Lineamenti storici dell'arte goriziana della seta, Gorizia 1933, pp. 11 s.; H. Kretschmayr, Gesch. von
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Lisciandrelli, Trattati e negoziazione ... di Genova...,Genova 1960, p. 207 (dev'essere il D. il
"plenipotenziario" di Leopoldo I che, a Venezia, riceve 6.000 ducati
in prestito all'imperatore da parte dei nobili genovesi Carlo e Giuseppe De
Ferrari all'interesse del 5%); J. C. Davis, The
decline of the Venetian nobility...,Baltimore 1962, pp. 141 s.; E. Patriarca, M. D'Aviano..., Verona 1963, p. 75; S. Serena, S. Gregorio
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Bozzi, Gorizia...,Gorizia 1965, pp. 172, 174 s., 178; F. Nicolini, Vico storico, a cura di F. Tessitore, Napoli
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investimenti finanziari genovesi..., Milano 1971, p. 266; A. Geat, Note ... su ... Sagrado, in Sot la nape, XXXII(1971), 3, p. 18; P.
Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, p. 88; G. Bravar, Il castello di Duino, in Studi monfalconesi e duinati, Udine 1976, p. 110; Gardis'cia, a cura di L. Ciceri, Udine 1977, pp. 84 s., 111,
170, 232, 235 n. 8, 244 s., 248, 251; B. M. Favretta, Monastero di S. Cipriano...,in Archeogr. triest., LXXXVIII (1979), pp. 264 ss.; T. Fanfani, Economia e società nei domini ereditari della monarchia asburgica..., Milano 1979, p. 47; M. Del Bianco Cotrozzi, Ebrei e industria della seta nel Gradiscano...,in Quaderni
giuliani di storia, II(1981), 2 pp. 46; Cat. della
bibl. di L. Einaudi...,a cura di D. Franceschi Spinazzola, Torino 1981,
pp. 240, 694; T. Miotti, Castelli del Friuli, III,Udine 1981, pp. 191, 198 n. 26, 247; P. Del Negro, Il patriziato ven. al
calcolatore...,in Rivista stor. ital.,XCIII (1981), p. 839; Id., Politica e cultura nella Venezia di metà Settecento...,in Comunità, CLXXXIV (1982), in nota alle pp. 332 ss.; G. Cozzi, Rep. di
Venezia e Stati italiani …,Torino 1982, pp. 174-175 n.
(ma il nome di Filippo Giacomo attribuito al D. nell'indice dei nomi a p. 415
va corretto); E. Muir, The L. von Ranke Manuscript Collection ... Catalogue...,Syracuse, N.Y., 1983, pp. 17 s.; A. Bombig, Calamità ... fra ... Gradisca e Gorizia durante la peste del 1682, in Iniziativa isontina, LXXXI (1983), pp. 51 ss.; Storia della cultura veneta, IV,2, Vicenza 1984, pp. 409 n. 11, 412 ss., 493 n. (ma qui
non del D. si tratta ma del Raffaele Della Torre genovese, autore del libello
filoveneziano Squitinio ... squitinato, Genova 1654 e Venetia 1654), 525; M. Zanetto, "Mito di Venezia" e "antimito", tesi di laurea, Univ. di
Venezia, fac. di lett., a.a. 1984-85, pp. 81-122; V. Criscuolo, M. d'Aviano ... e la sua nomina a "Missionario Apostolico", in Collectanea
franciscana, LVI (1986), pp. 281-95 passim; C. v. Wurzbach, Biogr. Lexikon d. Kaiserthums Osterreich, XLV, pp. 102 s.; Repertorium
der diplom. Vertreter...,I, pp. 151, 160, 169, 173; L. Ferrari, Onomasticon, Milano 1947, p. 262; G.
Mazzatinti, Inv. dei mss. delle bibl. d'Italia, III, p. 208 n. 256; LXXXV, pp. 40, 42, 49, 54, 140 s.;
LXXXVII, pp. 86, 89; LXXXIX, pp. 4, 20, 56; XCI, pp. 9, 25 s., 28; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Torriani
di Valsassina, tav. IX.
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